Un anno fa il pogrom di Hamas

Bologna, 7 ottobre 2024

(avv. Antonello Tomanelli)

All’alba del 50° anniversario della guerra del Kippur, Mohammed Deif, comandante delle brigate al-Qassam, braccio militare di Hamas, annuncia l’«Operazione Alluvione». Da Gaza vengono sparati 5 mila razzi. Le sirene d’allarme risuonano in tutta Israele. Si registrano esplosioni persino a Tel Aviv. Ma è soltanto un diversivo.

Dalla terra, dal mare e persino dal cielo tramite deltaplano, 2.500 miliziani di Hamas armati fino ai denti sconfinano in Israele, mentre l’intelligence militare e il Mossad dormono un sonno profondo.

Una parte di loro circonda l’area desertica di Re’im, dove è in corso un rave a un tiro di schioppo dalla rovente Striscia di Gaza. Altri penetrano nei vicini Kibbutz, dopo aver sbaragliato le poche sguarnite postazioni militari israeliane. Colte nel sonno, intere famiglie ebree vengono sterminate nelle camere da letto, mentre il rave finisce in un bagno di sangue. E 250 ostaggi vengono portati nella Striscia di Gaza.

Alla fine, tra Kibbutz, rave e imboscate per le strade, si conteranno almeno 1.200 morti, con donne, vecchi e bambini. Al netto dell’Olocausto, è il più sanguinoso pogrom dai tempi del Babij Jar ucraino e il primo nello Stato di Israele.

Le scene che si presentano ai soccorritori sono da film horror. I miliziani di Hamas non si sono limitati ad uccidere. A guardarsi intorno, sembra che il Mostro di Firenze sia calato in Israele per fare una scampagnata.

Nel rapporto ONU del 4 marzo 2024 confluiscono testimonianze di torture, stupri, esecuzioni sommarie. Affiora una miriade di violenze sessuali su donne, anche adolescenti, già gravemente ferite, spesso così brutali da provocare la frattura delle ossa pelviche, con i familiari costretti ad assistere. Mutilazioni dei genitali e seni asportati da corpi ancora vivi. Chiodi, coltelli e persino granate all’interno dell’ano. Decapitazioni. Vilipendi di cadavere. E sullo sfondo, l’esuberante euforia dei miliziani di Hamas, mentre danno sfogo a un odio che da ormai un secolo serpeggia in ogni anfratto della Palestina.

Per l’art. 6 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale del 1998, «uccidere membri del gruppo» allo scopo di «distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», costituisce crimine di genocidio. A chi considera l’azione del 7 ottobre un atto di resistenza, si raccomanda vivamente una attenta lettura dell’art. 6 dello Statuto di Roma. A meno di non voler considerare la mala fede motivo di vanto, riesce impossibile non far ricadere quella azione in quella norma.

Un pogrom, infatti, non potrebbe mai considerarsi un atto di resistenza. Animato unicamente dall’odio verso un’etnia, prescinde da qualsiasi vantaggio militare. Se a compierlo è un’organizzazione parte di un conflitto armato, si entra nell’area del genocidio. E qualsiasi manifestazione del pensiero che plaude alla azione del 7 ottobre, va inquadrata nella «apologia di genocidio», che l’art. 8 della Legge 9 ottobre 1967 n. 962 punisce con la reclusione da 3 a 12 anni.

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