Dilettanti allo sbaraglio

Bologna, 29 gennaio 2025

(avv. Antonello Tomanelli)

Facciamo il punto. Abbiamo un generale libico, Najeem Osema Almasri Habish, che per un paio di settimane gira per mezza Europa, soggiornando in Gran Bretagna, poi in Belgio, poi in Germania. Passa numerosi controlli di polizia, fa shopping con nove carte di credito platinum, acquista un Rolex Submariner da 27 mila Euro, pranza e cena in ristoranti stellati pernottando in location di lusso.

Poi prende a noleggio una Mercedes e dalla Germania giunge in Italia, precisamente a Torino, dove nel tardo pomeriggio del 18 gennaio si accomoda su una confortevole poltrona della tribuna dell’Allianz Stadium per assistere a Juventus-Milan. Godutosi lo spettacolo, se ne va in albergo.

Alle 3 viene svegliato dalla DIGOS di Torino, che ha in mano un mandato di cattura internazionale a fresca firma di Karim Ahmad Khan, il procuratore capo della Corte Penale Internazionale, lo stesso che ha richiesto l’arresto di Putin e di Netanyahu.

Le accuse sono da horror. Da capo della polizia giudiziaria di Tripoli e, soprattutto, da gestore dei campi di detenzione libici, dal 2015 ha ordinato, ma spesso e volentieri personalmente eseguito, centinaia di stupri, torture e omicidi, riduzioni in schiavitù ai danni di oppositori politici, giornalisti e migranti, tra i quali spunta un bambino di cinque anni.

Lo arrestano e lo portano nel carcere delle Vallette. Il suo destino è nelle mani della Corte d’Appello di Roma. Ma la DIGOS ha già commesso un errore fatale. Anziché seguire la procedura speciale prevista per i casi di arresto richiesto dalla CPI (disciplinati dalla legge n. 237 del 2012), segue il rito ordinario dell’estradizione (disciplinato dal codice di procedura penale), da osservarsi quando la richiesta proviene da uno Stato estero. Certo, gli agenti informano subito il ministro della Giustizia Nordio, che rimane silente, ma non il procuratore generale di Roma, che in questo caso è l’unico a poter disporre l’arresto del ricercato e chiederne la convalida alla Corte d’Appello di Roma.

Un cavillo procedurale, che per la Corte d’Appello rappresenta un ostacolo insormontabile. Tanto che all’udienza di convalida è lo stesso procuratore generale di Roma ad ammettere che l’arresto effettuato dalla DIGOS di Torino è irrituale. Risultato: la Corte d’appello ordina il rilascio immediato di Almasri.

Il libico non crede ai propri occhi. E’ libero. Però ha la bega di dover organizzarsi il ritorno in patria. Macché. Ci pensa il governo italiano in poche ore ad accompagnare lui e le sue guardie del corpo all’aeroporto di Caselle, a metterlo su un Falcon 900 in uso ai servizi segreti e a rispedirlo a Tripoli, dove lo accoglie una folla festante, ma anche un po’ irridente.

Il ministro dell’Interno Piantedosi ha optato per l’espulsione amministrativa, quella che può disporre solo lui in persona e per direttissima, quando vi è in gioco l’ordine pubblico. «Si tratta di un soggetto ad alta pericolosità sociale», si giustifica il ministro.

Una dichiarazione che non convince nessuno: che il libico possa organizzare torture, stupri ed esecuzioni sommarie sul territorio italiano, è impensabile. Se c’è qualcuno per cui è pericoloso, sono proprio quelli rinchiusi nei centri di detenzione libici, dove è stato rispedito.

Ma le strane pecche in questa grottesca vicenda si intravvedono già ai suoi inizi. Un tipo del genere non può passare inosservato. Come mai la CPI ha spiccato il mandato di cattura internazionale soltanto poco prima che il libico entrasse nell’Allianz Stadium, quando evidentemente i suoi spostamenti erano ben noti da tempo?

Inoltre, il governo italiano avrebbe potuto disfarsi dell’ingombrante soggetto in modo ben più dignitoso. Avrebbe potuto allargare le braccia dicendo che i magistrati hanno deciso così e lasciare che ritornasse in Libia coi propri cospicui mezzi. In più, aveva una scusa pressoché inattaccabile.

Vale a dire, secondo l’art. 12 dello Statuto di Roma del 1998 (che ha istituito la CPI), la Corte ha giurisdizione soltanto per i crimini commessi dal cittadino di uno Stato parte, e nel territorio di uno Stato parte. La Libia non è parte dello Statuto di Roma perché non ha mai firmato la relativa convenzione, allo stesso modo di altri Stati, in primis USA, Russia, Cina e Israele. Dunque l’Italia non aveva nessun obbligo di consegnare Almasri alla CPI.

Insomma, una mera facoltà, su cui incombeva l’ombra di una realpolitik dettata dall’essere il generale libico un referente affidabile del governo italiano per contrastare gli sbarchi clandestini, nonché garante dell’incolumità di diplomatici e imprenditori italiani che si recano in Libia.

E sarebbe stato molto meglio dirlo subito, anziché trincerarsi dietro il ridicolo pretesto della sua pericolosità sociale. O peggio, osservando che «la Corte Penale dell’Aja non è la bocca della verità», come ha fatto Tajani.

Vedremo come finirà il procedimento penale radicato presso la procura di Roma ai danni di Meloni, Nordio e Piantedosi per favoreggiamento personale e peculato, a seguito della denuncia presentata dall’avvocato Li Gotti, colto, a suo dire, da un attacco di dignità dopo aver difeso mafiosi che scioglievano i bambini nell’acido. Essendo la consegna del libico basata su una facoltà e non su un obbligo (sia perché la Corte d’Appello ne aveva disposto la scarcerazione, sia perché la Libia non è parte dello Statuto di Roma), l’accusa di favoreggiamento dovrebbe cadere. Mentre quella di peculato, originata dall’uso di un aereo di Stato per trasportare il libico a Tripoli, sarà difficile da sostenere, trattandosi dell’uso di un bene pubblico non per fini privati, ma in esecuzione di un provvedimento di espulsione firmato dal ministro dell’Interno.

Comunque vada a finire, la vicenda è destinata a lasciare un segno indelebile per il livello di pressappochismo e di dilettantismo ostentato da più parti, e ai massimi livelli.

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