Bologna, 3 settembre 2025
(avv. Antonello Tomanelli)
Sono partite da Barcellona, da Genova. Tra pochi giorni altre si uniranno dalla Sicilia, dalla Grecia e dalla Tunisia per puntare su Gaza. Saranno una cinquantina di imbarcazioni, di stazza media, rigorosamente a vela, una flotilla di lusso acquistata al mercato dell’usato. Valore medio di ciascuna barca: 50 mila Euro. Condotte da skipper professionisti e cariche di tonnellate di cibo, dovranno vedersela con la marina militare israeliana, che da anni mantiene a tre miglia dalle coste di Gaza un blocco navale che quando vuole non fa passare neanche i pesci.
Le dichiarazioni dei capi della Flotilla non preannunciano nulla di buono. «Noi andremo avanti. Non ci facciamo intimorire perché sappiamo di muoverci nella totale legalità. Navighiamo in acque internazionali. Israele non ha alcun diritto di arrestarci e sequestrare le nostre navi», dice l’esagitata Maria Elena Delia, portavoce per l’Italia della Global Sumud Flotilla.
«Dobbiamo rompere il blocco navale a Gaza e porre fine all’occupazione», tuona Greta Thumberg in quello destinato forse ad essere ricordato come il più epico dei suoi deliri narcisistici.
A convincere entrambe (e chi a loro si affida) di navigare in acque internazionali è Francesca Albanese, che da brava giurista quale è, tira in ballo il principio della libertà dei mari, un principio entrato in crisi già nella seconda metà del XIX secolo e seppellito, nel plauso generale, dal proclama del presidente Truman del 1945 con la teoria della «piattaforma continentale».
Da quel proclama si sono succedute diverse convenzioni internazionali, fino alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982, firmata a Montego Bay, che ha riconosciuto l’esistenza di zone marine, anche piuttosto estese, in cui ogni Stato costiero conserva una certa sovranità (quindi poteri coercitivi) nei riguardi di imbarcazioni battenti bandiera straniera, il cui comportamento può confliggere con i propri interessi.
Questione a dir poco complessa, ma che può risolversi agevolmente guardando a un unico principio: ogni imbarcazione ha il «diritto di passaggio inoffensivo» nel mare territoriale (12 miglia nautiche, circa 22 km) di qualsiasi paese. Si badi bene: «passaggio». Quindi, qualsiasi nave può passare (si badi bene: passare) per le acque territoriali israeliane per motivi turistici, commerciali, etc.
La Flotilla non vuole limitarsi a «passare» per le acque territoriali israeliane. La Flotilla punta a sbarcare sulla costa, per poi distribuire (come non si sa) gli aiuti alimentari a Gaza. Il tutto senza alcuna autorizzazione di Israele, che è un paese in guerra. E che ha sì occupato Gaza, ma che su di essa conserva, per ora, piena sovranità, almeno secondo le leggi di guerra. Se i russi prendessero Odessa e una Flotilla qualsiasi si presentasse nel porto pretendendo di sbarcare e distribuire aiuti umanitari alla popolazione civile, i russi risponderebbero «grazie, ma ci pensiamo noi».
Ma è proprio l’art. 19 della Convenzione di Montego Bay a chiarire quando il passaggio nel mare territoriale diventa «offensivo». Prevede una miriade di ipotesi, tra le quali spicca quella della lettera g): «il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero».
E’ evidente come il preannunciato comportamento della Flotilla rientri appieno in tale norma. Dunque, il suo «passaggio» per le acque territoriali israeliane ha natura dichiaratamente «offensiva». Israele può dunque usare la forza per bloccare la Flotilla e arrestarne i componenti, in osservanza delle proprie leggi interne.
Ma la domanda è: può farlo anche al di fuori del mare territoriale, e addirittura in acque internazionali?
Dico addirittura perché in realtà non vi è un confine tra mare territoriale e acque internazionali. Tra le due realtà si interpone prima la cosiddetta «Zona Contigua», dell’estensione di 24 miglia nautiche (circa 45 km), in cui lo Stato costiero, nelle materie già viste e elencate nella lett. g) dell’art. 19 della Convenzione di Montego Bay, ha gli stessi poteri esercitabili nel mare territoriale.
Vi è poi la «Zona Economica Esclusiva», che si estende per 200 miglia nautiche dalla costa (circa 370 km), in cui lo Stato costiero ha la sovranità piena su ogni risorsa naturale e il diritto esclusivo di costruire isole artificiali.
Ora, per poter giudicare il comportamento di Israele, bisognerebbe sapere in quale porzione di mare ha agito per contrastare le più recenti incursioni a Gaza, effettuate su scala minore dalla Flotilla. Se Israele si è contenuto nei limiti della Zona Contigua, ogni misura coercitiva è pienamente giustificata.
Se invece ha agito, come pare, a circa 50-60 miglia dalla costa, quindi al di là della zona contigua ma all’interno della zona economica esclusiva, va considerata l’ovvia presenza di numerosi mezzi israeliani in funzione di controllo proprio di quella zona marina le cui risorse la Convenzione di Montego Bay gli attribuisce in via esclusiva. E non sarebbe serio pensare che le pattuglie israeliane presenti non potrebbero fermare chi, addirittura previo avvertimento, si dirige verso le loro coste in violazione delle loro leggi.
In conclusione, va detto con chiarezza che diversamente da quanto alcuni continuano a sostenere (per ignoranza o mala fede, qui non importa), quelle non sono «acque internazionali». E il principio della libertà dei mari qui c’entra come il proverbiale cavolo a merenda.
Tra l’altro, Francesca Albanese dimostra di avere un concetto personalissimo del principio della libertà dei mari. Libertà dei mari significa poter navigare in acque internazionali per scopi consentiti dall’ordinamento, non per dirigersi verso uno Stato sovrano al dichiarato fine di violarne le leggi. Francesca Albanese ha studiato poco e, ancor meno, elaborato i propri apprendimenti. E, di tanto in tanto, lo si nota.